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| Enrico Job, lo scenografo come creatore
Basterebbe l'impianto visivo ideato nel '99 per il «Tartufo» riscritto da Enzo Moscato, diretto da Armando Pugliese e interpretato da Luca De Filippo a collocare Enrico Job, scomparso ieri sera a Roma a 74 anni, nel drappello dei più grandi scenografi italiani della seconda metà del Novecento e, insieme, nella schiera dei napoletani diventati illustri (e anzi diventati illustri appunto per questo) senza smarrire il senso di appartenenza alle proprie radici. Mentre Pugliese scaricava nella casa di Orgone un autentico diluvio di cibarie e bevande, lui, Job, doppiava quel pantagruelico corno dell'abbondanza con un fondale che citava una proverbiale natura morta barocca stracolma di cacciagione e verdure: e con ciò sottolineava come meglio non si sarebbe potuto la falsità monomaniacale del celebre impostore molièriano. E che dire, tanto per restare nell'ambito del teatro francese, a proposito della scenografia realizzata da Job per l'allestimento, nel '95, de «L'albergo del libero scambio» diretto da Missiroli e interpretato da Geppy Gleijeses? Applicava il meccanismo messo in moto da Feydeau persino agli arredi, con i mobili che inizialmente rappresentavano palazzi déco in scala e poi, ruotando su se stessi, diventavano, per l'appunto, stanze d'albergo. Così Enrico Job dimostrava e metteva a frutto un talento che si traduceva, come sempre dovrebbe essere per uno scenografo, nel sostegno fedele e ad un tempo creativo alla linea scelta dalla regia. Avvenne, tanto per citare un altro esempio, pure nell'allestimento de «Le voci di dentro» per la regia di Rosi e l'interpretazione, ancora, di Luca De Filippo. Il suo sfondo, segnato da frammenti di un passato splendore che sembravano le «rovine di antiche fedi» di Durkheim, costituiva un perfetto riscontro delle invenzioni di Rosi (quale il capretto alla Francis Bacon che compariva nel vano della porta) volte ad illuminare la dicotomia realtà/sogno. Non fu, questo, il portato - ne accennavo all'inizio - della capacità di mantenersi ancorato alle proprie radici e, contemporaneamente, di trascenderle, spingendo lo sguardo verso più larghi orizzonti? Del resto, in tal modo Enrico Job si collocava nel solco tracciato, per l'appunto, da Eduardo De Filippo: il quale, in «Sik-Sik, l'artefice magico», aveva saputo coniugare perfettamente la più genuina tradizione della farsa napoletana e le pirotecniche accensioni delle avanguardie storiche, prime fra tutte il dadaismo e il futurismo. Dunque, davvero non a caso il napoletanissimo Job sviluppò, negli anni Settanta, un particolare interesse per un autore come Strindberg, che riconosceva alla scenografia un ruolo fondamentale e, giusto, fondamentalmente attivo. Venne, così, la sua partecipazione agli allestimenti de «Il pellicano» e «Il padre», con la regia di Mina Mezzadri, e di «Verso Damasco», con quella di Mario Missiroli. D'altronde, la sua vocazione per un teatro di vasto respiro s'era già manifestata agli inizi della sua attività, quando, negli anni Sessanta, aveva collaborato prima con Strehler, firmando i costumi per «Il gioco dei potenti» tratto da Shakespeare, e poi con Ronconi, fornendo le scene e i costumi per «Santa Giovanna al rogo» di Honegger e per l'«Arlecchino» di Busoni. Questo per fare appena due esempi circa l'apporto, non meno prezioso, che Job diede anche alla scena musicale. E a proposito del suo rapporto con Ronconi, passato, poniamo, per gli allestimenti di «Riccardo III» e del «Candelaio» di Giordano Bruno, basterà ricordare che si concluse con la fornitura delle scene e dei costumi per l'«Orestea» di Eschilo, che nel '68, a Belgrado, valsero a Job il premio del Bitef, uno dei più importanti e prestigiosi organismi teatrali dell'area balcanica. E, per finire, il Job scenografo cinematografico resta affidato a film come «Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto», «Pasqualino Settebellezze» e «Film d'amore e d'anarchia», tutti firmati dalla moglie Lina Wertmüller. Quando si diceva della fedeltà. E infatti ha detto Lina di Enrico: «È stato un uomo luminoso, un grande artista, un fine intellettuale, un pezzo raro. Ho avuto il dono di stare con lui 44 anni, siamo stati due compagni di gioco». Enrico Fiore
(«Il Mattino», 6 marzo 2008)
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